Le informazioni riportate in nessun caso sostituiscono la consulenza clinica fornita dal singolo sanitario, nell’ambito delle proprie competenze.
Si consiglia sempre di consultare il proprio medico e il proprio fisioterapista di fiducia; quanto riportato ha solo un valore informativo e non prescrittivo al singolo caso.

Diagnosi medica: è di esclusiva competenza del medico e può essere definita come atto finale di un ragionamento clinico in cui si identifica una patologia attraverso l’analisi dei sintomi e dei segni.
Esempi di comuni diagnosi mediche sono: lombalgia, cervico-brachialgia, tendinite della cuffia dei rotatori, tunnel carpale ecc.

Diagnosi o valutazione funzionale: viene effettuata dal fisioterapista sulla base della diagnosi medica.
Scopo della diagnosi funzionale è quello di mettere in evidenza le menomazioni esistenti o potenziali, le limitazioni funzionali e le abilità o disabilità della persona assistita.
La diagnosi funzionale fornisce al fisioterapista le indicazioni sulle quali basare e decidere il programma riabilitativo e le sue modalità di applicazione (1).
La diagnosi meccanica è una diagnosi funzionale che permette di classificare il disturbo meccanico della colonna vertebrale o degli arti in una sindrome meccanica specifica e di impostare il trattamento meccanico appropriato.

(1) Casonato Oscar. Dall’autonomia alla diagnosi funzionale e differenziale del fisioterapista. Riabilitazione anno XVIII, n°9, novembre 2001.

Il mal di schiena o Lombalgia è un problema molto comune, tant’è vero che fisiobartek-approfondimenti-1dall’80 al 90% delle persone adulte soffrono di questo disturbo nel corso della propria esistenza.
In oltre il 90% delle lombalgie non è possibile identificare una causa specifica per cui si parla di lombalgia comune o aspecifica o meccanica.
Nelle lombalgie comuni, agli esami strumentali come radiografie, tac o risonanze magnetiche sono presenti delle anomalie come artrosi, degenerazione discale, protrusioni o addirittura ernie del disco che però non possono essere messe in relazione diretta con il mal di schiena in atto, cioè non possono essere considerate la causa dei sintomi lamentati dal paziente.

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Questo in quanto le stesse anomalie strutturali si riscontrano anche in soggetti che non soffrono di mal di schiena, cioè in soggetti asintomatici.
La storia naturale di un episodio di lombalgia, cioè come esso si manifesta in assenza di qualsiasi tipo di intervento medico è variabile, ma nella maggior parte dei casi è di tipo autolimitante, in grado cioè di risolversi bene nel giro di un mese dall’esordio.
Proprio grazie a queste caratteristiche del mal di schiena aspecifico, si sono sviluppati nel corso degli anni moltissimi trattamenti diversi, ognuno indirizzato a ipotetiche cause (assolutamente prive di fondamento come malposizionamenti, blocchi, asimmetrie, tensioni muscolari ecc.) ed ognuno, a detta dei propri sostenitori, di estrema efficacia (visto che bene o male il dolore passa da solo indipendentemente dal trattamento o a volte “nonostante” il trattamento stesso).
La variabilità della storia naturale del mal di schiena si presenta però con un’altra caratteristica importante che è la recidiva, cioè gli episodi di dolore tendono a ripresentarsi e nel corso del tempo gli stessi possono essere più ravvicinati e durare più a lungo.
In alcuni casi il dolore lombare può assumere le caratteristiche di cronicità, cioè essere presente quasi tutti i giorni per un esteso periodo di tempo.
Per il fatto che non sia possibile identificare una struttura anatomica responsabile della lombalgia aspecifica, per intraprendere il trattamento corretto occorre valutare il comportamento dei sintomi e della meccanica della schiena come risposta ai movimenti e alle posizioni.
Questo permette di inquadrare il mal di schiena aspecifico in un sottogruppo all’interno del quale i sintomi e la meccanica si comportano in maniera simile.
A questa classificazione il fisioterapista giunge in seguito ad una valutazione funzionale che si compone di un’anamnesi (intervista verbale) e di una analisi dei movimenti e posizioni del paziente.
Sulla base di questa classificazione verrà impostato il trattamento che di conseguenza non sarà più aspecifico, cioè uguale per tutte le lombalgie comuni, ma specifico per il sottogruppo e individualizzato per il paziente stesso.
Questo approccio al trattamento della lombalgia comune viene confermato dalla letteratura scientifica (vedi EBM) ed è l’orientamento che si sta diffondendo in tutto il mondo.
L’espressione pratica di questo concetto è la metodica di Diagnosi e Terapia Meccanica (link) con la quale il fisioterapista può classificare un paziente con diagnosi medica di lombalgia aspecifica in sottogruppi o sindromi specifiche e di conseguenza impostare il trattamento più idoneo.
Non solo, una volta risolto l’episodio o una situazione cronica, il fisioterapista imposta un piano di prevenzione individualizzato basato sull’esecuzione di semplici esercizi e sull’educazione all’uso corretto della schiena in modo da evitare successive ricadute.
Il paziente viene quindi reso protagonista non solo del proprio recupero ma anche della corretta gestione della propria schiena.

Il male al collo o cervicalgia (per cervicale si intende il tratto di colonna vertebrale compreso tra l’occipite e l’ottava vertebra cioè il tratto del collo) è comune, cioè molto diffuso, al pari del mal di schiena.
fisiobartek-approfondimenti-4Cosi come per la lombalgia, anche per i dolori cervicali nella maggior parte dei casi non è possibile identificare una specifica causa ed occorre quindi classificare l’episodio doloroso in una determinata sindrome meccanica.
Una volta definita la corretta diagnosi meccanica è possibile impostare il trattamento meccanico più indicato.
Questo, come per il mal di schiena, si basa sull’apprendimento da parte del paziente di semplici esercizi da eseguire durante la giornata accompagnati dalla correzione delle posture o abitudini scorrette.
Queste sono, nella maggior parte dei casi, i fattori più importanti che provocano l’insorgenza e che mantengono il dolore al collo.
Spesso infatti i pazienti attribuiscono il loro problema a condizioni ambientali poco favorevoli come il freddo, le correnti d’aria o l’umidità quando invece il loro dolore viene dato dalle posizioni che essi assumono durante la giornata o durante la notte.fisiobartek-approfondimenti-3
Difficilmente queste posture vengono viste come scorrette proprio perché negli anni sono diventate un’abitudine a cui il corpo si è adattato pur costituendo una fonte di disagio.
L’esempio classico è quello della posizione seduta adottata per mangiare,guidare, lavorare al computer o sul divano guardando la tv.
Difficilmente senza modificare positivamente queste abitudini sarà possibile trattare efficacemente la cervicalgia e mantenere il benessere ottenuto nel tempo.
Ancora una volta il coinvolgimento attivo del paziente diventa l’arma fondamentale con cui il fisioterapista può ottenere il massimo risultato e permettere al paziente stesso di mantenerlo nel tempo.

fisiobartek-approfondimenti-5I menischi sono delle strutture fibrocartilaginee interposte tra il femore e la tibia che hanno l’importante compito di rendere congruenti le superfici articolari (convessa quella femorale e piatta quella tibiale).
Come tutte le strutture del corpo umano i menischi possono danneggiarsi in seguito ad eventi traumatici (distorsioni) oppure degenerare in seguito all’usura.
Il risultato può essere l’insorgenza di dolore al ginocchio, impotenza funzionale ed in alcuni casi gonfiore e blocco dell’articolazione.
In quest’ultimo caso l’impedimento al movimento dell’articolazione è dato da un frammento di menisco che si interpone tra le superfici articolari.
Non tutte le lesioni meniscali necessitano però di intervento chirurgico in quanto, soprattutto per quelle che non determinano blocco articolare, il trattamento riabilitativo può dare ottimi risultati.
Infatti, sulla base della diagnosi e prescrizione medica, il fisioterapista può effettuare una valutazione funzionale del ginocchio che permette di inquadrare la presentazione dei sintomi e della meccanica dell’articolazione in una sindrome meccanica specifica (vedi Diagnosi e Terapia Meccanica).
Il trattamento sarà diverso per ogni sindrome meccanica e sarà basato sull’esecuzione di movimenti mirati sotto forma di esercizi spesso eseguibili autonomamente a domicilio dal paziente stesso.
Un esempio è dato da un dolore al ginocchio diagnosticato come lesione meniscale che alla valutazione funzionale si presenta con queste caratteristiche:
-il dolore viene prodotto dalla flessione del ginocchio che risulta limitata
-la ripetizione della flessione produce sempre lo stesso dolore che non peggiora di conseguenza
In questo caso il trattamento sarà incentrato su un esercizio di flessione del ginocchio che diventerà nel corso di qualche settimana progressivamente meno dolorosa fino ad ottenere una flessione completa e indolore.
Altro caso può essere dato da un dolore che si manifesta facendo le scale o camminando in discesa (tipico durante il ritorno in una escursione in montagna) che con opportuni esercizi che prevedono l’utilizzo di carichi crescenti può essere ridotto gradualmente fino alla sua risoluzione.fisiobartek-approfondimenti-7
Questi esempi fanno comprendere come una diagnosi medica di lesione meniscale non significhi necessariamente intervento chirurgico ma, in seguito ad una valutazione meccanica e funzionale, portare ad un trattamento riabilitativo specifico e individualizzato.

fisiobartek-approfondimenti-6La spalla è un complesso articolare molto mobile che permette al braccio di orientarsi su tutti i piani dello spazio; è costituito da tre articolazioni che lavorano in sinergia: articolazione scapolo-toracica, articolazione acromion-claveare e articolazione scapolo-omerale.
Quest’ultima è dotata della maggior capacità di movimento ed è una struttura molto complessa la cui stabilità è assicurata da una serie di strutture capsulo-legamentose e muscolo-tendinee.
Sono proprio queste che spesso diventano fonte di dolore come risultato di traumi (distorsioni, lussazioni) o semplicemente per usura in seguito a movimenti ripetuti (sollevare pesi, lavare i vetri, dipingere ecc.).
Le diagnosi mediche più comuni con cui spesso vengono identificate le patologie della spalla da parte degli specialisti ortopedici sono: periartrite, sindrome da conflitto, lesione della cuffia dei rotatori, periartrite calcifica, tendinite, borsite ecc.
In realtà per trattare in modo conservativo (senza intervento chirurgico) una spalla dolorosa non è necessario conoscere con precisione la struttura responsabile del dolore mentre diventa fondamentale valutare come rispondono i sintomi e la meccanica dell’articolazione ai movimenti o alle posizioni.
Il fisioterapista, sulla base della diagnosi medica, effettua una valutazione meccanica e funzionale in modo da comprendere il comportamento del dolore e della mobilità articolare in conseguenza dell’esecuzione di movimenti ripetuti in direzioni specifiche.
Così un dolore alla spalla con diagnosi di periartrite può manifestarsi alla valutazione con una limitazione dolorosa della rotazione esterna, limitazione che diventa sempre meno importante e fastidiosa con la ripetizione del movimento stesso in modalità passiva, cioè eseguito dal terapista o con aiuto dell’altra mano.
Oppure, il caso più frequente, un dolore alla spalla (diagnosi medica di sindrome da conflitto sub-acromiale) nella elevazione del braccio come nel vestirsi o sollevare una bottiglia d’acqua, che si manifesta anche di notte disturbando il sonno, che alla valutazione meccanica si presenta con dolore durante il sollevamento dell’arto lungo il fianco che però non peggiora con la ripetizione del movimento e che non crea un’aggravamento una volta terminati i movimenti stessi.
Il trattamento riabilitativo in questo caso sarà incentrato sull’esecuzione del movimento doloroso per piccole serie durante la giornata da parte del paziente stesso, il che normalmente determina una graduale diminuzione dei sintomi nell’arco di qualche settimana.
In conclusione i disturbi di natura meccanica della spalla che sono spesso la conseguenza di un utilizzo ripetitivo nei movimenti della vita di tutti i giorni, trovano nella terapia meccanica (cioè nell’esecuzione di movimenti specifici) il trattamento ideale che mira a ristabilire il corretto funzionamento di questo complesso sistema articolare.

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L’epicondilite, comunemente chiamata “gomito del tennista” è una patologia che colpisce il tendine di origine dei muscoli dell’avambraccio all’epicondilo il quale è una sporgenza ossea dell’omero a livello del gomito.
La zona in cui il dolore si manifesta è rappresentata dalla faccia laterale del gomito con a volte un’irradiazione lungo l’avambraccio fino al polso.
É un disturbo comune che interessa le persone di tutti i gruppi occupazionali, quindi non solo giocatori o appassionati di tennis, in particolare tra i trentacinque e cinquantacinque anni.
É causata da molte attività che comportano l’uso del polso e del gomito e che provocano uno stiramento o un sovraccarico del tendine degli estensori del polso al gomito.
Purtroppo si tratta di un problema molto conosciuto anche dai non addetti ai lavori non tanto per la gravità dei sintomi quanto per la difficoltà di risoluzione degli stessi e per i tempi di guarigione decisamente lunghi.
Per comprendere il perché la maggior parte dei trattamenti proposti per la cura del “gomito del tennista” risultano spesso inefficaci con una conseguente persistenza del dolore occorre capire la natura del disturbo e come questo si comporta.
La prima considerazione che occorre fare è che l’epicondilite, a dispetto del nome (le patologie con il suffisso -ite identificano una natura infiammatoria della stessa), nella maggior parte dei casi, non è determinata da un’infiammazione dei tendini che originano dall’epicondilo.
Ma se non è un’infiammazione come tutti dicono, allora cos’è?
Ad eccezione della prima fase del disturbo, quando il dolore viene avvertito costantemente tutto il giorno e quindi può essere determinato da un processo infiammatorio, il “gomito del tennista”è un problema di natura meccanica caratterizzato dalla presenza di tessuto anormale.
Anormale perché il tessuto tendineo, in seguito a piccole lesioni provocate da un uso eccessivo dello stesso, è andato incontro a cicatrizzazione con formazione di tessuto cicatriziale doloroso.
Quindi il tendine quando viene caricato crea dolore in quanto viene messo in tensione del tessuto cicatriziale che fatica a sopportare una tensione normale.
Non essendo un problema di natura infiammatoria non può quindi beneficiare di tutti quei trattamenti che mirano a ridurre il processo infiammatorio come farmaci antiinfiammatori, ghiaccio, pomate antiinfiammatorie nonché laser, ultrasuoni, ionoforesi ecc.
Trattandosi come abbiamo visto di un disturbo meccanico va trattato con una terapia meccanica e cioè con una terapia che utilizzi sollecitazioni meccaniche.
Queste sollecitazioni devono essere altamente specifiche e cioè agire sul tendine o porzione di tendine interessato e devono mirare al graduale rimodellamento del tessuto anormale in modo da ottenere una capacità del tendine di resistere a carichi anche elevati.
Prorio su questi principi si basa la corretta riabilitazione dell’epicondilite che viene articolata su questi punti:
1.in seguito a diagnosi medica di epicondilite viene effettuata dal fisioterapista una valutazione meccanica per identificare la corretta sollecitazione terapeutica.
2.viene identificato un semplice esercizio della durata di uno-due minuti che il paziente deve eseguire nell’arco della giornata.
3.deve essere controllata periodicamente la corretta esecuzione degli esercizi, l’efficacia degli stessi e le progressioni necessarie fino a completa risoluzione dei sintomi nonché ripresa delle attività lavorative o sportive.
I tempi di trattamento?
Generalmente sono necessari da uno a tre mesi di terapia meccanica per recuperare completamente e per evitare fastidiose e indesiderate ricadute.

Si tratta di una patologia che colpisce la fascia plantare spesso nella sua inserzione al calcagno, detto comunemente tallone, nella parte inferiore e posteriore del piede.

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Ma cos’è la fascia plantare? La fascia plantare è una struttura fibrosa e rigida, simile ad un nastro che si estende dal calcagno alla base delle dita del piede.

La funzione della fascia è quella di fungere da tirante dell’arco plantare cioè del “ponte” presente nella parte interna del piede, quello che, per intenderci, quando ridotto o assente dà origine al piede piatto.
Sfortunatamente questa struttura può andare incontro a lesioni che possono interessare diverse zone della fascia stessa ma in particolar modo a livello della sua inserzione al calcagno.fisiobartek-approfondimenti-10
Queste lesioni possono avvenire o per un trauma acuto come uno scatto, un salto ecc. oppure, più frequentemente, per un sovraccarico ripetuto della fascia; questo può essere determinato da un’attività inusuale, dall’utilizzo di calzature inadatte, da una modifica nell’attività sportiva.
Il risultato è la comparsa di un dolore vivo sotto il tallone che si presenta nelle attività in carico e cioè camminando, correndo, saltando mentre non è presente da seduto o sdraiato.
Per la natura stessa del disturbo e per il tessuto interessato, la fascite plantare tende a perdurare nel tempo diventando appunto cronica e nella maggior parte dei casi non si risolve spontaneamente continuando a disturbare le attività già menzionate.
Numerosi sono i trattamenti proposti per tale disturbo e questi vanno dal riposo, al ghiaccio, farmaci, pomate, plantari, terapia fisica come ultrasuoni laser tecar, onde d’urto ecc.
Purtroppo la maggior parte dei precedenti trattamenti dimostrano una scarsa efficacia e spesso il disturbo non si risolve tant’è vero che in alcuni casi viene data indicazione all’intervento chirurgico che consiste nel release o allentamento della fascia plantare.
Chi è affetto da questo disturbo deve quindi rassegnarsi a soffrire di male al piede per tutta la vita?
Fortunatamente no in quanto il problema può essere affrontato correttamente evitando soprattutto il diffusissimo “fai da te”.
L’approccio attualmente più corretto è, a mio avviso, il seguente: visita medica per avere una diagnosi medica appropriata; con diagnosi medica di fascite plantare è indicata una valutazione meccanica da parte del fisioterapista per iniziare un trattamento meccanico personalizzato.
Lo scopo del trattamento meccanico sarà quello di “rimodellare” il tessuto a suo tempo lesionato rendendolo gradualmente più elastico e più resistente, in grado cioè di sopportare forze normali di trazione con la conseguente riduzione o abolizione del dolore che da esso origina.
I mezzi? Sollecitazioni meccaniche altamente specifiche e personalizzate, in altre parole esercizi tagliati a misura di piede e, se necessario, manovre manuali da parte del fisioterapista.
I tempi di miglioramento e risoluzione della sintomatologia vanno mediamente da uno a tre mesi…..purtroppo per avere un risultato stabile nel tempo non si può fare più velocemente.

fisiobartek-approfondimenti-11Il ginocchio del saltatore è una patologia che colpisce tipicamente gli atleti impegnati in sport che richiedono un gran numero di salti e in particolar modo nel basket e nella pallavolo.
In realtà può presentarsi anche nella pratica di altri sport che non richiedono salti frequenti ma che comunque sollecitano in maniera eccessiva le strutture anteriori del ginocchio.
Infatti il ginocchio del saltatore altro non è che una tendinopatia che coinvolge i tendini anteriori del ginocchio che assieme alla rotula e al muscolo quadricipite costituiscono l’apparato estensore del ginocchio.
Perché estensore? Perché grazie alla contrazione del quadricipite la forza viene trasmessa alla tibia mediante i tendini anteriori e la rotula permettendo così di distendere il ginocchio e quindi anche di saltare.
Nella maggior parte dei casi il tendine interessato è quello rotuleo cioè quello posto al di sotto della rotula mentre meno frequente è l’interessamento del tendine quadricipitale che si inserisce sopra la rotula stessa.
La porzione colpita è solitamente quella inserzionale al polo inferiore della rotula (R) o al polo superiore, mentre è più raro, nell’adulto, il coinvolgimento dell’inserzione del tendine rotuleo (TR) sulla tibia (T).
Ma cerchiamo di capire cos’è la tendinopatia e perché si manifesta proprio nella parte anteriore del ginocchio.
Innanzi tutto va detto che è un problema di natura meccanica, determinato cioè da sollecitazioni meccaniche eccessive su un tendine normale.fisiobartek-approfondimenti-12
Nello specifico una tendinopatia si crea quando il carico a cui viene sottoposto il tendine supera il carico che il tendine stesso riesce a sopportare e questo carico può essere unico come nel caso di un trauma o ripetitivo come tipicamente avviene nel ginocchio del saltatore.
In pratica, il pallavolista che effettua giornalmente centinaia di salti nel corso dell’allenamento o della partita può superare la capacità di carico del tendine rotuleo e determinare l’insorgenza di una tendinopatia.
A questo punto la domanda del lettore sorgerà spontanea: ma la tendinopatia non è in realtà una tendinite e quindi un’infiammazione del tendine?
Eccezion fatta per le fasi iniziali o riacutizzazioni, la tendinopatia non è una patologia infiammatoria ma bensì degenerativa come già da anni dimostrato da studi istologici su tendini sintomatici in cui non si è riscontrata la presenza di cellule infiammatorie (1, 2, 3, 4, 5).
Patologia degenerativa significa che il tessuto tendineo, in seguito ai suddetti microtraumi, è andato incontro a modificazioni strutturali determinate da continue microlesioni e tentativi di riparazione successivi; in pratica in alcune aree il tendine non ha più la struttura normale ma, senza andare nello specifico delle modificazioni istologiche, risulta alterato e non infiammato.
A dimostrazione di ciò sta il fatto che tipicamente la tendinopatia non si risolve semplicemente stando a riposo, come spesso viene consigliato.
La prima impressione è che i sintomi migliorino con il riposo ma questo è dovuto al fatto che il tendine viene sollecitato di meno e la sintomatologia si ripresenta invariata alla ripresa dell’attività di salto.
Di conseguenza tutte le terapie volte al controllo dell’infiammazione (farmaci, ghiaccio, pomate, cerotti ecc.) non possono determinare la risoluzione della tendinopatia ma nel migliore dei casi ridurre temporaneamente la sintomatologia.
Come affrontare allora nel migliore dei modi il ginocchio del saltatore?
Essendo , come detto all’inizio, un problema di natura meccanica, deve essere trattato con una terapia meccanica e cioè mediante l’utilizzo e la gestione dei carichi sul tendine.
Da una parte si dovranno gestire le sollecitazioni peggiorative: ridurre o se necessario sospendere temporaneamente l’attività di salto cercando di mantenere comunque l’allenamento per non perdere tono muscolare, coordinazione, capacità aerobica.
Dall’altra si dovrà “rimodellare” il tendine cioè riportarlo alla struttura normale e ciò mediante l’utilizzo mirato di esercizi personalizzati.fisiobartek-approfondimenti-13
Il fisioterapista dovrà riconoscere l’esercizio terapeutico più appropriato e dovrà istruirne il paziente all’esecuzione corretta, monitorandone le risposte nel tempo.
Ciò porterà ad un progressivo miglioramento delle condizioni del tendine e delle sue capacità di carico che si tradurrà in una riduzione stabile dei sintomi.
Ragionevolmente i tempi necessari per ottenere un risultato soddisfacente variano da uno a tre mesi a seconda della gravità e della durata di persistenza del problema.
In alcuni casi, in particolar modo negli atleti professionisti o dilettanti di alto livello, si può al massimo gestire il problema, permettendo allo sportivo di allenarsi liberamente pur senza completa scomparsa del disturbo, in ragione del fatto che difficilmente è possibile ridurre drasticamente il numero di salti.
Comunque sia la terapia meccanica permette di affrontare nella maniera più efficace e scientificamente corretta un problema che può, se trascurato, disturbare o addirittura impedire la pratica dell’attività sportiva con salti.

(1)Chard, Cawston, Riley, Gresham, Hazleman (1994). Rotator cuff degeneration and lateral epicondylitis: a comparative histological study. Ann Rheum Dis 53.30-34.

(2)Abate M, Silbernagel KG, Siljeholm C, Di Iorio A, De Amicis D, Salini V, Werner S, Paganelli R. Pathogenesis of tendinopathies: inflammation or degeneration?Arthritis Res Ther. 2009; 11(3):235.

(3)Alfredson H, Ljung BO, Thorsen K, Lorentzon R. In vivo investigation of ECRB tendons with microdialysis technique no signs of inflammation but high amounts of glutamate in tennis elbow. Acta Orthop Scand. 2000 Oct;71(5):475-9.

(4)Alfredson H, Forsgren S, Thorsen K, Lorentzon R. In vivo microdialysis and immunohistochemical analyses of tendon tissue demonstrated high amounts of free glutamate and glutamate NMDAR1 receptors, but no signs of inflammation, in Jumper’s knee. J Orthop Res. 2001 Sep;19(5):881-6.

(5)Maffulli N, Khan KM, Puddu G. Overuse tendon conditions: time to change a confusing terminology. Arthroscopy. 1998 Nov-Dec;14(8):840-3.

fisiobartek-approfondimenti-14La colonna vertebrale presenta, vista di lato, tre curve fisiologiche che devono essere presenti in maniera più o meno accentuata e che hanno importanti funzioni biomeccaniche (vedi fig.).
Innanzi tutto hanno la funzione di ammortizzare le sollecitazioni compressive così come fa una molla o un ammortizzatore e inoltre permettono una distribuzione uniforme dei carichi sulle strutture costituenti la colonna vertebrale stessa.
Queste curve, denominate lordosi cervicale, cifosi toracica e lordosi lombare si presentano nella loro fisiologica e individuale ampiezza nella postura in piedi.
Questo vuol dire che mentre siamo in piedi la nostra colonna è nella posizione neutra, posizione che ci permette di assorbire nel miglior modo possibile le sollecitazioni compressive derivate dalla forza di gravità e non solo.fisiobartek-approfondimenti-15
In effetti, nei pazienti che soffrono di mal di schiena, spesso la posizione in piedi assieme a quella sdraiata risulta meno dolorosa rispetto alla posizione seduta.
Nel corso del mantenimento della posizione seduta rilassata invece la colonna lombare perde la sua lordosi fisiologica e si porta in flessione completa (vedi fig.).
In posizione di flessione completa si verifica un notevole aumento del carico compressivo sui dischi intervertebrali e una tensione dei legamenti che uniscono tra di loro le vertebre.
Per questo motivo il mantenimento di questa postura per un certo periodo di tempo determina fastidi, indolenzimenti, fino a diventare la vera e propria causa di mal di schiena.
Di conseguenza, qual’è la posizione seduta corretta che evita il verificarsi di questi problemi?
La posizione seduta corretta è quella che mantiene le curvature fisiologiche della colonna vertebrale e cioè mantiene la schiena nella stessa posizione che essa assume quando siamo in piedi.
Come fare però a mantenere questa posizione? Due sono le possibilità più pratiche per ottenere questo scopo: attivamente, cioè utilizzando la contrazione dei muscoli della schiena e quindi sforzandoci di mantenere la parte bassa della schiena leggermente inarcata in avanti e passivamente, cioè affidare il supporto della schiena e di conseguenza della lordosi lombare ad una struttura esterna.
Nel primo caso lo sforzo dovrà essere necessariamente volontario richiedendo una seppur minima fatica e proprio per questo difficilmente mantenibile per lunghi periodi di tempo(vedi fig.).

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Nel secondo caso, con l’utilizzo adeguato di sedie adatte e supporti lombari corretti sarà possibile mantenere anche per un certo periodo di tempo, come può verificarsi durante la guida dell’auto o lavorando al computer, la corretta postura della colonna vertebrale (vedi figg.).

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Cosa sono i supporti lombari? Sono dei cuscini con forma e densità adeguate che consentono, una volta inseriti tra lo schienale e la parte lombare della schiena, di supportare la lordosi e quindi, a patto di rimanere bene indietro con il bacino e non scivolare in avanti sulla sedia, di assicurare la corretta postura seduta.
I supporti lombari sono quindi un utilissimo strumento che ci permette, pur utilizzando sedie e sedili normali, di sederci correttamente senza grossa fatica preservando in tal modo la salute della nostra schiena!

Rappresenta il trauma più frequente che colpisce l’arto inferiore tant’è vero che si stima che ogni giorno in Italia avvengano circa 5000 distorsioni di caviglia.fisiobartek-approfondimenti-19
Lo sport rappresenta l’attività nella quale questo evento traumatico si verifica con maggior frequenza e in particolar modo durante la pratica della pallavolo, basket e calcio.
Il meccanismo traumatico è rappresentato nella maggior parte dei casi da un movimento brusco di inversione della caviglia (il piede ruota verso l’interno) con il peso sull’arto interessato nel momento dell’atterraggio da un salto o nell’arresto brusco durante un cambio di direzione.
Al momento del trauma il soggetto avverte un dolore vivo nella parte laterale della caviglia, attorno al malleolo peroneale, a cui fa seguito un gonfiore nella stessa area più o meno evidente e una incapacità a sostenere il peso durante la camminata (anche questo segno variabile in rapporto alla gravità della distorsione).
Quello che succede nell’articolazione è uno stiramento più o meno marcato fino alla rottura di uno o più legamenti articolari laterali che normalmente controllano e limitano il movimento di inversione della caviglia.

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Ma come affrontare correttamente il trauma in modo da recuperare nel miglior modo possibile e nel minor tempo possibile?
Rispetto al passato molto è cambiato nell’approccio riabilitativo alla distorsione della caviglia, infatti mentre lo standard fino a qualche anno fa era l’immediata immobilizzazione dell’arto interessato per periodi più o meno prolungati, attualmente si tende ad immobilizzare il meno possibile riprendendo movimento e carico precocemente.
Questo è stato possibile anche grazie ad una serie di studi scientifici che hanno confermato la validità di un atteggiamento meno restrittivo consigliando una mobilizzazione cauta ma precoce ed una concessione del carico sulla caviglia appena permesso dal dolore.
Detto questo attualmente l’approccio più efficace prevede le scelte migliori in rapporto alla gravità della distorsione e in base alla fase del recupero post-infortunio.
Da una prima fase in cui è appropriato il riposo, l’applicazione di ghiaccio locale e il mantenimento dell’arto elevato (in seguito all’effettuazione di una radiografia se il medico ritiene necessario) occorre il prima possibile iniziare una graduale mobilizzazione e un progressivo recupero della capacità di camminare con il carico totale.

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Il fisioterapista, dopo una valutazione funzionale accurata, è in grado di suggerire i movimenti più appropriati e l’intensità degli stessi in base alla situazione clinica della caviglia e alla fase di guarigione dal trauma.
Con questo tipo di approccio è possibile nella maggior parte delle distorsioni di caviglia (tranne nei casi di lesioni legamentose gravi) ottenere un recupero completo della funzionalità nell’arco di circa un mese dal momento dell’infortunio con ottimi risultati anche sulla stabilità della caviglia stessa e di conseguenza sulla ripresa dell’attività sportiva.